Non è giusto che per la scuola spieghiamo ai figli le lezioni del giorno dopo e nello sport li alleniamo a casa?
Un dubbio: lo facciamo solo perché siano più preparati o non piuttosto perché possano primeggiare, ottenere vantaggi rispetto ai compagni ed essere anche noi i migliori?
Se è il caso, i figli vanno aiutati, ma non sollevati dai loro compiti, soltanto dopo che ci hanno provato con il necessario impegno e il minimo indispensabile perché imparino a fare da soli. Quando, invece, li prepariamo anticipando la spiegazione delle lezioni, che ce ne rendiamo conto o no, diamo soluzioni già preparate e ci fermiamo al puro apprendimento, ma così non li abituiamo a ragionare, risolvere i dubbi e correggersi, come richiede invece l'insegnamento.
L'attività scolastica, per il suo carattere di partecipazione, ricerca collettiva, confronto e scambio di opinioni, non può svolgersi fuori dal suo ambiente naturale. La classe è indispensabile. Crea partecipazione, scambio tra allievi e insegnanti, solidarietà e competizioni tra coetanei che portano a porsi dubbi e a sforzarsi per risolverli, a cercare e vedere altri collegamenti tra le conoscenze che si acquisiscono, ad allenare la critica e il ragionamento e ad arrivare alle conclusioni percorrendo tutti i passaggi che portano all'informazione.
In particolare, l’attività comune fa acquisire i meccanismi per imparare e per superare l'informazione che si può ricevere, che sono più importanti dell'avere tante informazioni assorbite senza critica, mentre la nostra anticipazione permette sì di avere maggiori conoscenze, ma non permette di scoprire i collegamenti tra di esse, di trovare soluzioni diverse o di arricchire l'informazione con interpretazioni personali.
E attenzione: quando facciamo gli insegnanti a casa perché i figli possano sempre primeggiare, trascuriamo altri rischi, come renderli insicuri di fronte alle difficoltà che devono affrontare da soli, stimolare troppa paura di perdere e abituarli ad avere sempre bisogno di essere imboccati per fare ciò che gli altri fanno da soli.
Nello sport, come può sembrare logico, il genitore ”allenatore a casa” lavora perché il figlio possa sempre vincere, ma in questo modo lo condanna se perde. Un po’ contorto? Una motivazione essenziale per i giovani è l’apprezzamento dell’adulto, e quando con i nostri atti diciamo a un figlio, e ovviamente anche a un allievo, che può solo essere migliore degli altri, gli diamo un compito troppo difficile anche quando è nelle sue possibilità, perché quando perde è uno sconfitto.
Le sconfitte, o almeno il rischio di non farcela, sono indispensabili. Chi ha troppa paura di perdere gareggia per non sbagliare. Evita le situazioni nelle quali sono indispensabili creatività e ingegno, che sono meno maneggevoli delle ripetizioni. Non si avventura nel nuovo, che è l’unico percorso per arrivare al proprio talento, ma espone all’errore. Non rischia, mentre le sconfitte servono anche per imparare a cambiare strada, per scoprire soluzioni impreviste, e per capire che vi sono anche gli altri, e che i loro contributi vanno cercati e corrisposti.
Se cerchiamo di avvantaggiare i figli o gli allievi sugli altri senza che ne abbiano merito, quindi, li costringiamo a doversi sempre confermare e, soprattutto, a farlo con le proprie forze, e a vedere la sconfitta o anche solo le difficoltà come colpe, tutte condizioni che li scoraggiano e li sconsigliano di avventurarsi dove non possono avere il nostro aiuto.
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