“Sfidai Shaq a lavorare duramente e a mettersi in forma in modo da poter dominare sotto i tabelloni, diventare uno stopper difensivo in mezzo all'area ed essere il leader della squadra. Shaq è una persona molto piacevole, ma in campo dava sempre l'impressione di non divertirsi. Gli dissi che mi aspettavo che tirasse fuori la sua vera personalità.”
Shaq è Shaquille O’Neal e ha bisogno di ben poche presentazioni: uno dei giocatori più dominanti della NBA e della sua epoca.
La citazione invece riguarda Phil Jackson, coach mitologico, capace di conquistare un totale di 13 campionati (2 da giocatore e 11 da allenatore) guidando al successo giocatori leggendari, da Michael Jordan a Kobe Bryant, da Scottie Pippen ad appunto, O’Neal.
La frase è tratta dal suo libro “Più di un gioco” e racconta del suo primo approccio con il giocatore più importante della squadra, appena arrivato a guidare i Los Angeles Lakers.
Il primo giorno di allenamento è un momento fondamentale per le dinamiche di un gruppo di alto livello: è il momento della prima impressione. Il nuovo allenatore parla alla squadra e singolarmente con i propri giocatori, traccia una strada, espone obiettivi e filosofie.
Il Kobe Bryant del 1999 è un giovane di smisurato talento che deve essere però aiutato a trovare il giusto approccio al campo per lasciare che la propria bravura possa sfociare nel giusto percorso per esplodere e relazionarsi al meglio con il resto dei compagni.
I Lakers sono una franchigia da sempre sotto i riflettori, con un seguito di star, con la pressione di avere una squadra di buon livello ma incapace di arrivare al titolo da 10 anni. Anzi, le ultime stagioni in realtà sono state deludenti e di continua ricostruzione.
Sarebbe stato comodo per Jackson rivolgersi a O’Neal, il giocatore più importante della squadra, capace con il suo fisico mastodontico di spostare il mondo, affidandosi completamente a lui e dargli carta bianca, accettandone lacune difensive ma lasciandogli al tempo stesso peso e responsabilità sulle spalle.
Eppure, nei confronti di chi ha probabilmente ha in mano il destino della stagione Jackson si rivolge invece in un modo non scontato, fuori dagli schemi: lo sfida. Gli chiede di elevare il proprio livello difensivo, di superarsi, e va pure oltre.
Gli ricorda, che in fondo questo è un gioco, di lasciare che la sua personalità possa fluire liberamente sul campo, di tornare a divertirsi, di essere sé stesso.
Immaginate: il più grande allenatore della storia, uno dei più grandi giocatori, la franchigia più importante. Eppure la strada del loro prossimo successo sta nella più grande semplicità: divertirsi.
Un fatto che pone di fronte a delle riflessioni, specie quando nella quotidianità dello sport di base ci si dimentica di questo. Del perché spesso da ragazzi "qualunque" si pretende di essere "tutto". Gli si chiede di indossare la maschera del campione, magari sotto la pressione dei genitori o la spinta dell'ego dell'allenatore.
La storia di Shaq e Jackson ci dice che basterebbe divertirsi, liberando il giocatore dalle pressioni esterne per lasciare che le doti possano trovare la propria strada naturale; solo così migliorerà la prestazione del singolo e di conseguenza anche la squadra.
Oppure vorrà dire che, in fin dei conti, al livello di noi comuni mortali e nel peggiore dei casi - quello nel quale il talento si dimostrerà limitato o la carriera fosse sfortunata - ci si sarà “solamente” divertiti.
Andrea Manetta
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