La continuità è arrivare al rendimento possibile e riuscire a mantenerlo durante tutta la gara. Se non avviene, dobbiamo pensare a un agonismo sbagliato, a una formazione non più adatta al giovane attuale o a difficoltà di conduzione.
Se l'unico obiettivo della gara è la vittoria, diventa un obbligo chiedere un agonismo sempre al massimo delle possibilità, e a volte oltre il lecito, e l'uso di qualsiasi stratagemma o furberia. Con questi sistemi, però, si creano condizioni contrarie al rendimento e, se si ha a che fare con dei giovani, è impossibile condurre un’educazione che li porti a una vera vita adulta.
Si fa per giocare alla massima efficacia, ma con questi sistemi non si riesce a trovare lo stato psicofisico del miglior rendimento. Se l'avversario fa troppa paura, si deve pensare più a neutralizzarlo piuttosto che a creare e imporre, che è l’unico modo per scoprire e impiegare il talento. Si perdono la fluidità di azione, la scioltezza, l’energia e il benessere fisico, la sicurezza per tentare soluzioni originali e l’immediatezza nel mettere in pratica le azioni, le tattiche e i gesti tecnici più utili alle situazioni. E intanto la tensione, un'attivazione psicofisica troppo intensa e la necessità di pensare ogni azione per evitare l'errore piuttosto che impiegare gli automatismi sono ostacoli alla fluidità e alla creatività del gioco.
Non tutte le difficoltà scaturiscono dalla gara. Una squadra sbaglia certe gare facili sulla carta perché non è allenata a cambiare schema mentale quando sta soccombendo. Se sono abituati a essere condotti per mano, gli atleti non sono allenati ad assumere iniziative personali. Aspettano un soccorso, che però non e mai sufficiente perché le soluzioni per togliersi dalle difficoltà si trovano se si è allenati a pensare e decidere da soli. In gara sono costretti a ricordare e applicare schemi che non hanno contribuito a costruire, e quindi non hanno una base accertata per creare situazioni nuove e originali. Non sanno determinare e padroneggiare le situazioni che accadono, e si adattano passivamente alle condizioni che via via si presentano. Non sanno richiamare la condizione migliore da impiegare in ogni gara, sia essa importante o facile sulla carta, e anzi non sanno neppure che si possa fare. Infine, ognuno parla il proprio linguaggio, poiché non sono abituati a pensare e creare insieme, e quindi non giocano in un collettivo, che è la condizione per pensare e trovare insieme le contromisure, sentirsi appoggiati e cooperare di fronte alle difficoltà.
E gli allenatori? Uno in panchina si agita, urla e aggredisce gli allievi appena commettono un errore o non applicano alla lettera tutte le disposizioni che ha impartito. Si è formato in un'epoca in cui era normale urlare per stimolare e farsi ubbidire. E non è da escludere che sia il suo modo per essere più incisivo e dimostrare di avere polso. Durante la settimana, invece, sembra calmo, ma si vede che è troppo distante e autoritario. Dà le soluzioni più opportune perché in gara applichino un agonismo totale e parla solo di partite vittoriose. Che cosa dovrebbe fare? Forse si chiede troppo, ma se oggi vogliamo sportivi che giochino al livello possibile e vincano le gare alla loro portata, dobbiamo fare un altro tipo di formazione. Un giocatore non abituato a pensare e provare, cercare le soluzioni da solo, a sapere sempre come fronteggiare gli imprevisti e a impiegare tutte le risorse di là dall’avversario, dell'importanza della gara e delle condizioni che si sono create nel gioco, è spesso in balia degli eventi e del caso, e in attesa di qualcuno che lo porti per mano. Gli allievi di quest’allenatore hanno paura di essere aggrediti se sbagliano e non rischiano mai la soluzione innovativa o una giocata non prevista. Molti sono impacciati, come se prima di prendere ogni iniziativa dovessero costruirsi mentalmente i gesti per attuarla o aspettassero qualcuno che dica come fare, e altri rispondono impegnandosi di più, ma diventano frenetici e confusi, fino a giocare ognuno per conto proprio e non riuscire a fare collettivo.
Un altro lamenta di non riuscire a motivare gli allievi quando incontrano una squadra più debole. Ha provato a prospettare sconfitte e figuracce, a chiedere maggior impegno, a tenere alta la tensione esaltando la difficoltà della gara e la pericolosità dell'avversario, ma non rispondono. Si capisce che non sono abituati a giocare per ottenere sempre il massimo, e proprio il rilievo eccessivo che l'allenatore ha provato a dare a ogni gara è diventato un rituale che ha ottenuto l'effetto, solo apparentemente paradossale, di convincerli che l'avversario è più debole e non è necessario impegnarsi e sforzarsi troppo. Anche questo è un errore, come la pretesa di un agonismo sempre acceso e carico di rabbia. È risaputo, infatti, che la motivazione a dare tutto e il piacere di riuscire fanno giocare meglio e con minor fatica, perché danno più entusiasmo ed energia, mentre la gara sotto tono e la difficoltà a imporre le proprie qualità creano tensione e insicurezza e danno più fiducia all'avversario. Il vantaggio di giocare sempre al meglio va però fatto rilevare in ogni gara, abituando gli allievi a cercare in qualsiasi momento il miglior risultato indipendentemente dalla forza dell'avversario o del risultato già acquisito. Invece, la ricerca della vittoria a tutti i costi già con i bambini fa sì che, una volta raggiunto il risultato, spesso si giochi subito un'altra partita, nella quale non ci si regola più sulle proprie forze, ma solo su quelle dell'avversario per poterle neutralizzare.
Che cosa fare? Il consiglio è indagare e capire perché nelle gare migliori si è giocato con più piacere e meno fatica, e senza sbalzi di rendimento, e si è gareggiato finalmente al livello delle vere potenzialità della squadra. La ragione di questi momenti sono la consapevolezza di potersi ripetere al livello delle gare migliori, il rilievo e la persistenza che assumono nella mente le condizioni psicofisiche che hanno permesso il massimo rendimento e, in definitiva, la sicurezza che si ottiene quando mente e corpo sono in sintonia, che fa gareggiare l'atleta e la squadra con piacere e con tutte le energie disponibili.
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