Pillole

Si crede ancora che la punizione abbia una funzione educativa, ma occorre cautela. Certo le trasgressioni vanno pagate, ma preferiamo ricorrere a conseguenze stabilite prima e naturali.

Un ragazzino sbaglia una porta in una discesa sugli sci, e l’allenatore lo punisce facendogli risalire la pista a piedi. Una squadra professionistica di calcio perde una partita che sembrava abbordabile, e il giorno successivo sveglia alle sette, visione ripetuta del filmato della gara e, dopo, in ritiro per tutta la settimana.

A volte sembra naturale rispondere con una punizione,

e allora sgomberiamo subito il campo da situazioni nelle quali la squadra o il singolo lanciano una sfida a società e allenatore incrociando le gambe, uscendo dalle regole di una professionalità adeguata o giocando a fare i capipopolo distruttivi. Qui siamo in un terreno inquinato nel quale sono già stati commessi toppi errori, e una punizione è uno successivo. Capita di rado? Pensiamo a gare perse per scarso impegno o per uno stile di vita non compatibile con lo sport. Che cosa fare in questi casi? Quando un giovane vuole dare una testata a un’incudine per dimostrare che fa ciò che vuole o crede di poter piegare tutti ai suoi capricci, bisogna lasciarlo fare, perché è la forma più pura di libertà e responsabilizzazione.

In questi casi una conseguenza va pagata, ma occorre anche andare indietro e vedere che cosa è successo prima. Possiamo scoprire che si tratta di una ribellione magari nei confronti di mancanze di rispetto gratuite, di qualche ingiustizia nei confronti anche di adulti che devono aspettare di essere lasciati dentro o tirati fuori dal cestino senza almeno un cenno di spiegazione, oppure dalla presa del centro della scena dopo le vittorie o di uno scaricabarile dopo una sconfitta.

E allora, dopo aver risolto tutte queste questioni, se qualcuno ama fare il distruttivo, sta fuori. Questa non è una punizione, perché in ogni campo, compreso lo sport, si deve cercare di correggere chi sbanda, ma deve prevalere sempre l’interesse degli altri.

Vogliamo parlare di punizione nei confronti di chi ha perso dopo aver dato tutto ciò che aveva; di chi ha provato qualcosa di nuovo e più creativo, ma non è stato capito dagli altri; oppure di chi ha ubbidito agli ordini perché gli hanno detto che bisogna correre su binari e non ha saputo metterci una pezza quando sarebbe stato necessario fare qualcosa di uovo. In pratica, ci riferiamo a chi è “educato” con una punizione, come se un errore o una mancata vittoria fossero sempre delle colpe.

Perché c’è ancora chi ricorre alla punizione come se gli allievi fossero colpevoli di ogni errore o mancata vittoria? I toni sono più blandi e, oggi, sempre più sotto forma di rimprovero, esercitazioni inutili e noiose o aumento di carichi di lavoro, che se fossero utili sarebbe opportuno fare sempre, ma sono pur sempre punizioni. Forse non si è ancora estinta la convinzione che il giovane che fa sport, specie se talento, sia dominato da istinti da tenere sotto controllo. Che la minaccia della punizione sia uno strumento per mantenere la disciplina, e la paura e la vergogna servano per ottenere un maggiore impegno. O che sia l’unica forma di stimolo per dare “rabbia”, come si sente spesso dire anche in serie A.

Oppure dobbiamo pensare a una forma più intima, oggi quasi incomprensibile, di condizionamento che si trascina dalle proprie esperienze dell’infanzia. L’istruttore con i capelli bianchi ricorda di avere vissuto le stesse esperienze e di non averle patite. È vero, ma era la stessa musica per tutti, e per questo non si pativa, ma il giovane di oggi vuole sceglierla lui la musica, e allora non resta che motivarlo verso quella che gli proponiamo. Ed è vero che ogni intervento vorrebbe stimolare a una maggiore efficienza, ma occorre capire che si tratta di armi pericolose.

In ogni caso, la punizione, anche se più leggera, sembra ancora utile, ma dobbiamo tenere conto di effetti che oggi sono vissuti in altri modi. Chi punisce umilia e deteriora il rapporto, perché pone l’adulto in una posizione oppressiva che procura ostilità e risentimenti spesso definitivi. Oggi che, per procedere verso l’autonomia e la responsabilità dell’adulto, il rapporto e l’adesione sono molto più efficaci della paura di essere punito, il giovane educato con la punizione riserva brutte sorprese. Non risponde neppure più agli interventi corretti perché, allenato solo a correre su binari tracciati da altri, non ha sviluppato la critica, che gli potrebbe far capire l’inutilità e il carattere autolesivo delle sue reazioni. Spesso accetta la sfida e resiste alle punizioni mettendo in atto comportamenti autolesivi come l’assunzione di droghe e di alcool, finché costringe l’adulto, in particolare il genitore, a cedere e perdere autorità, fino a cercare di comprare l’adesione e passare a un’educazione permissiva. Oppure, mette in atto vendette più raffinate, anche se stimolate dall’insicurezza. Per esempio, c’è chi paga la scarsa applicazione facendosi punire, e chi sfida, e alla fine, se ha talento, vince, un allenatore non può perdere i migliori.

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