In qualsiasi campo, chi vuole raggiungere gli obiettivi che desidera, deve mettere in conto fatica, impegno, regole che possono non piacere e rinunce, nello sport, però, che è piacere, divertimento e benessere, usare termini come sacrificio, rinuncia, fatica o puro dovere, cioè dare più di quanto si riceve, non ha significato.
In genere, se ne parla per portare una squadra in crisi alla responsabilità o anche soltanto per stimolarla all’impegno e all’osservanza di valori che non si sa che cosa siano, se non l’ultima risorsa, quando non si sa più che cosa fare per uscire da una crisi o i giocatori si sono stufati di questo tipo di sport. Oppure, è un luogo comune, un modo di dire per convincere se stessi o un giovane che, passando attraverso un percorso sgradevole, sarebbe più resistente e disposto a un impegno totale per vincere. Il discorso avrebbe anche una sua logica se non si ottenesse di più lasciando che lo sport resti un piacere e si facesse leva su motivazioni ben più efficaci, come scoprire il proprio talento, migliorare le prestazioni e, ottenere un apprezzamento impossibile agli altri.
Parla ancora di sacrifici l’adulto ancora convinto che più pretende più ottiene, o forse che sia l'unico modo per ottenere, mentre il giovane attuale si oppone e rifiuta tutto ciò che non gli piace e di cui non capisce lo scopo, perché non procura piacere e l’interesse. Un ragazzo ha bisogno che l’adulto s’interessi a lui, lo aiuti a prendere le decisioni senza liberarlo dalle responsabilità, lo ascolti e lo aiuti a risolvere i suoi problemi da solo.
Che nello sport, come in ogni attività o impegno che piace e interessa, serva la voglia di sacrificarsi è un luogo comune, un modo di dire che finisce per convincere un giovane che è giusto sentirsi oppresso e annoiato o contrattare per impegnarsi. Ciò non significa rifiutare l’impegno e la fatica per un obiettivo che li richiede, ma non imporli quando ci sono modi e strumenti più efficaci e non sgraditi per chiederli.
Come si trasforma lo sport in un piacere invece che in un sacrificio?
- Quando non si toglie il gusto del gioco con rimproveri, punizioni deprezzamenti, o colpevolizzazioni.
- Non si pensa ad allenamenti più pesanti, noiosi e “punitivi” dopo una gara sottotono, ma se ne parla in gruppo per trovare le cause e le soluzioni.
- Non si porta l’attenzione sulla prossima partita, sempre difficile, che può soltanto essere vinta.
- In pratica, si passa dal credere di dover neutralizzare il rifiuto di fare insieme qualcosa che interessa e diverte al lasciare che gli allievi siano spinti all’impegno dalle loro motivazioni.
- Si considerano i momenti dello sviluppo.Il bambino smette appena sente conto di non divertirsi e di essere impegnato in un lavoro. Dopo i dieci, dodici anni, con la comparsa del pensiero astratto, che gli consente di vedere e progettare il futuro e dà un significato a ciò che sta facendo, il ragazzo inizia a provare piacere in ciò che fa e a considerare i disagi come strumenti per arrivare a obiettivi reali.
Vincenzo Prunelli