Formazione

Il dialogo a una direzione unica è il modo più frequente di parlare quando c’è troppa differenza tra gli interlocutori, si deve tenere un atteggiamento formale o si vuole mantenere una posizione distante. Può essere, quindi, anche un comportamento adeguato ma, quando si parla di un educatore, sia egli genitore, insegnante o istruttore, che ha il compito di trasmettere a un giovane i modi per diventare adulto, e quindi anche i propri caratteri, non è opportuno. Nello sport non lo è soprattutto nei confronti del talento, che ha più bisogno di comunicare ai livelli elevati dell’intelligenza.

Parlare per capirsi

Questo tipo di comunicazione è un modo di parlare in cui i messaggi hanno un’unica direzione, e non sono arricchiti dal contributo di chi ascolta, che resta un recettore al quale si chiede un apprendimento passivo. Consente soltanto un insegnamento uniforme, che si può definire «a pioggia», perché invia lo stesso messaggio a tutti e non si cura delle differenze tra gli allievi. Non stimola risposte e contributi e, quindi, serve solo per il condizionamento. Altri punti critici sono il disinteresse nei confronti dell’età e del livello di sviluppo, come avviene con la specializzazione precoce, la trasformazione del gioco in un lavoro, la sostituzione del piacere e del divertimento con il sacrificio, il sudore e il furore agonistico. Cerca di stimolare le qualità fisiche e psicologiche utili al momento con incitamenti che trasformano la concentrazione in tensione e freno al rendimento.  E trascura qualità e attitudini che non vede, o non riesce a scoprire i caratteri, il livello di sviluppo e le motivazioni.

Le conseguenze sono che mantiene invariate le distanze tra istruttore e allievo, e viene meno alla funzione forse più importante dell’educazione, che è portarlo a essere sempre più simile a chi lo educa, O meglio, a costo di crearsi detrattori, superiore, perché la funzione dovrebbe essere la somma dei caratteri adulti e delle conoscenze dell’uno e le qualità personali del secondo. Ottiene uno sportivo soltanto allenato all’apprendimento, all’imitazione e all’esecuzione, e non preparato ad assumere responsabilità da solo.

L’allievo non può esprimere opinioni né sapere com’è valutato. Un giocatore in Serie A, convinto di avere fornito una buona prestazione, alla partita successiva è messo in panchina senza alcuna spiegazione. Non sa se ha commesso qualche errore, non ha capito un’indicazione o ha avuto un gesto di ribellione. Tutto è possibile, e anche che l’allenatore abbia avuto le sue buone ragioni, ma il giocatore vuole sapere il motivo per correggersi, evitare di ripetere l’errore o tenere un altro atteggiamento se ha compiuto un gesto biasimevole. Sicuramente, alla prossima partita sarà impacciato, timoroso di sbagliare e forse umiliato per essere stato considerato un oggetto senza valore. Altri vorrebbero esporre una difficoltà e chiedere un consiglio, dare un contributo per trovare una soluzione o suggerire un cambiamento, ma non osano, e sicuramente non tentano un gesto più complicato che sarebbe utile, ma non ci provano per evitare un giudizio troppo severo.

L’istruttore, da parte sua, chiede soltanto di imparare ed eseguire, e non può capire il singolo allievo, conoscerne i desideri e le possibilità d’evoluzione e attuare gli interventi più opportuni per formarlo. Ciò non significa adottare un insegnamento specifico per ognuno, ma farli comunicare fra loro, in modo che tutti abbiano l’opportunità di spiegarsi, essere capiti e condividere le posizioni degli altri. L’istruttore che impone e non coinvolge non invia né riceve messaggi chiari e assimilabili, non ha contributi e non impara dall’allievo, che non significa equiparare i ruoli e le competenze ma, quantomeno, imparare da lui i modi per interessarlo e farsi capire, o cogliere un’idea ingegnosa in un errore.

Non sa se e quanto è stato capito, perché non sviluppa la critica e la creatività, non stimola risposte o dubbi da risolvere e, quindi, non ha conferme sull’adesione e sulla qualità dell’apprendimento. Non forma un gruppo, perché blocca la comunicazione, lo scambio di opinioni, il sostegno reciproco, la consapevolezza di non essere soli di fronte alle difficoltà e i dubbi, come sta avvenendo nella scuola per la didattica a distanza, che è riconosciuta come la più gravosa fonte di disagio sociale e psicologico per i giovani. Soprattutto, viene mano alla trasmissione dei propri caratteri di adulto, perché resta una figura lontana, autoritaria e vissuta come irraggiungibile.

Vincenzo Prunelli

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