Lo sport parla meno di carica, strigliate o paura della gara e non fa più tanti appelli alla rabbia o all'orgoglio, ...
... perché questi stimoli creano tensione, non danno concentrazione e impegno e, nel migliore dei casi, lasciano indifferenti.
Si stanno facendo strada, invece, tecniche moderne per prepararla, come il Mental Training, il richiamo alla condizione del massimo rendimento, in cui l'atleta non ha stress, ansia e tensione o, al contrario, noia e disinteresse, si sente pronto, sa di essere all'altezza ed è al giusto livello di energia fisica e psichica.
S’invocano meno anche le lunghe concentrazioni con la mente fissa per ore per prevedere ogni situazione e avere pronte tutte le soluzioni e contromisure. In pratica, per cancellare le sensazioni e i pensieri estranei ed essere già nel clima della gara molto prima di cominciarla, ma la condizione del massimo rendimento non si può costruire o trovare in un momento di tensione. Giocare una gara nella mente prima di entrare in campo affatica più di una vera, perché produce insicurezza. Il pensiero è volto a neutralizzare l'avversario e non a creare e trovare uno sfogo nell'azione, mancano le conferme, subentra la paura di non essere concentrati e, alla fine, il giocatore si sente solo, con quei disturbi fisici ed emotivi che conosciamo tutti.
Per concentrarsi, quindi, non serve ripassare come su uno schermo tutte le situazioni che si potranno verificare e preparare le contromisure da impiegare per non trovarsi poi distratti o senza idee. In realtà, la condizione psicofisica del massimo rendimento si evoca in poco tempo, senza dover allontanare ogni altro pensiero perché la mente non vada altrove e perda la concentrazione. Altrimenti cadiamo in un grande paradosso, come avviene quando vogliamo scacciare dalla mente un pensiero che ci disturba: più insistiamo, più il pensiero diventa vivo, fastidioso e insistente, finché occupa tutta l'attenzione, mentre se ne va d'incanto solo che riusciamo a distrarci. E se un pensiero è neutro, al massimo può distogliere per un po’ l'attenzione, ma se subentra la paura di non farcela e di perdere, allora la "concentrazione" diventa il vero problema da superare.
Partire invece da lontano creando tensioni e paura di non essere pronti è una fatica più pesante che giocare una gara. La concentrazione, o la condizione psicofisica ideale per rendere, è piacere, entusiasmo, impazienza di misurarsi, sicurezza di potersela giocare, prontezza nel trovare le soluzioni quando se ne presenta la necessità, rapidità nelle scelte e padronanza delle proprie risorse. È uno stato della mente e del corpo già vissuto e solo da riportare a galla in un istante, ma perché non diventi un fattore negativo del rendimento, va preparata fuori della gara. In uno sport che richiede creatività, prontezza, iniziativa e lucidità, infatti, più l'atleta cerca di concentrarsi, più gli è difficile provarla, e alla fine questo turbamento lo confonde e gli mette paura. E la deve saper trovare da solo, perché l'affanno di non essere concentrato e il bisogno che qualcuno lo “carichi”, lo portano a non fidarsi delle proprie risorse, e a credere di dover essere sempre sollecitato e soccorso.
Inoltre, il giocatore che conosce le proprie condizioni fisiche e psichiche ideali e sa come ottenerle non è mai preso dal dubbio. Quello che si deve rassicurare di avere tutto presente nella mente, e non ha la verifica del campo e la possibilità di dare sfogo alla tensione con il gioco, invece, perde sempre più certezze man mano che la "concentrazione" si prolunga. Quest'incertezza lo porta a sentirsi sempre meno sicuro e ad avere paura di non essere preparato, e alla fine più cerca di concentrarsi, meno ha tutto chiaro. Mentre si sofferma su una sensazione, un gesto tecnico o un'azione di gioco, il resto va sullo sfondo, perde rilievo, sembra dimenticato, e allora deve ricominciare daccapo, con sempre più tensione e paura di non essere preparato. Se poi pensiamo che in una gara la maggior parte delle situazioni è imprevista e va creata, è più importante essere pronti a far fronte alle situazioni impreviste piuttosto che andare a cercare lo schema giusto e trovarlo quando la situazione della gara è già cambiata.
Negli sport di situazione, specie in quelli più tecnici, dove non serve avere schemi da ripetere, ma inventarne di nuovi e trovare soluzioni non previste, quindi, è controproducente rendere meccanico ciò che si vuole fare e avere davanti ogni gesto e azione da compiere. È necessario essere lucidi e pronti per vedere, capire, prevedere e scegliere l'azione o il gesto adatto a ogni situazione che si presenta. Questo tipo di preparazione ha forse qualche ragione negli sport esplosivi, come il tuffo o il salto, dove può servire per "sentire" tutto il gesto, ma l'atleta l’ha compiuto tante volte, e di sicuro ha in mente tutta la sequenza senza affannarsi a ripassarla.
in ogni caso, il giocatore preparato a farlo si concentra meglio da solo, poiché conosce i propri meccanismi meglio di quanto li conosca l'allenatore, e ha già provato la vera concentrazione, il momento magico, e la sa riconoscere e richiamare quando serve. Quello d'alto livello, che ha un rapporto più sicuro con i propri mezzi e non si deve mai mettere in discussione, la ottiene con poco sforzo, proprio perché non fa niente di particolare per ottenerla. Altri devono impegnarsi, e magari aiutarsi con qualche rituale, come il risveglio alla solita ora, la stessa cena la sera prima o i vestiti della gara fortunata. I meno sicuri hanno bisogno di essere "caricati" e portati per mano o di rituali sempre più contorti, fino a faticare nella preparazione più che nella partita.
Certi sistemi, però, resistono ancora, come semplificare e limitarsi a chiedere concentrazione e impegno per aumentare il rendimento. Si ricorda la difficoltà della gara e si crea paura, ma la concentrazione è uno stato che interessa tutte le condizioni della prestazione, dai fattori del massimo rendimento a quelli che riguardano la persona fino agli effetti delle precedenti esperienze e al collettivo, perché non si può essere pronti se non si ha la totale padronanza del fisico e della mente e si crea da soli. Inoltre, la prestazione massima per ognuno è sempre legata a una condizione mentale di piacere e di entusiasmo, e mai di paura e tensione, perché una preoccupazione eccessiva per il risultato, l’ansia, l’obbligo di stare dentro degli schemi fissi piuttosto che produrre quelli più adatti al momento della gara, il timore di un giudizio negativo e la troppa attenzione a non sbagliare vanno contro la lucidità, l’iniziativa e la capacità di creare.
Non aiuta la concentrazione dare le ultime raccomandazioni per ricordare che "oggi ci vuole il massimo impegno perché la gara è importante e non bisogna prendere la partita sottogamba”, non permettere che si distraggano e offrire rassicurazioni vuote, che creano più incertezza e tensione, o cercare di sdrammatizzare con una specie di euforia fredda e studiata che non convince. Offrire una falsa fiducia, infatti, forse per una volta lo rassicura, ma è un espediente ingenuo: dalla seconda, specie se il campo dirà tutt'altra cosa, si accorgerà che si tratta di un trucco e non ci crederà più. E poi, se i giocatori si sentono sicuri, non ne hanno bisogno mentre, se sono presi dai loro timori, pensano a come scacciarli e aspettano la fine di tutto quell'agitarsi per potersi finalmente rilassare.
Prima della gara, quindi, si dovrebbero fare poche cose e, in ogni modo, ridurre la tensione invece che aumentarla: essere chiaro per non far nascere incertezze e pronto a rispondere a chi ha un dubbio o vuole essere rassicurato, promuovere semmai uno scambio d'opinioni sulla gara cercando di attenuare la tensione dell'attesa, non associare alla gara mai paura di non farcela e di perdere, o l'attesa di un giudizio negativo, di una punizione o di un'umiliazione.
Oggi sta diventando sempre più utile l’applicazione di nuove tecniche, specie il Mental Training, ma non si può improvvisare. Senza una guida tecnica, si rischia di vedere ancora l’atleta come un soggetto da condizionare e lo sport solo come vittoria e non anche come prestazione; di favorire tutti gli aspetti che riguardano la gara, ma di trascurare i caratteri personali, di semplificare e non tenere conto che la concentrazione ha regole e logiche non casuali da scoprire e trasformare in strumenti per la gara. Oppure, di ordinare come fare e di parlare delle condizioni più utili per il rendimento, ma non abituare i giocatori ad analizzare e rivivere i propri vissuti, che sono quelli giusti per ognuno e possono essere recuperati in un attimo, perché sono già pronti nella memoria.
In effetti, questa difficoltà è comprensibile, perché per fissare nella mente lo stato psicofisico ottimale ed evocarlo per la gara occorrono una vera formazione e una tecnica che non si può improvvisare. È sufficiente, infatti, proporre degli stimoli che il giocatore sente estranei per disturbare la concentrazione che ognuno in qualche modo si è già costruito e che per lui è più efficace, perché la mente, se non è aggredita da stimolazioni che creano tensione, si abitua da sola a richiamare le condizioni che le sono più favorevoli.
Sul comportamento da tenere prima della gara, quindi, ognuno ha le proprie teorie o anche solo le proprie convinzioni. Specie credere di dover fare ogni volta qualcosa, come se il giocatore avesse sempre bisogno di qualcuno che faccia per lui e pensi a tutto perché lui è incapace a farlo da solo, mentre la concentrazione è sicurezza, padronanza e prontezza, tutte condizioni che un intervento esterno il più delle volte mette in dubbio.
Vediamo alcuni comportamenti che, pure apparentemente logici, incidono sulla concentrazione.
Fare una preparazione diversa per l'avversario importante o secondo la difficoltà della gara, e così renderla più carica di tensione. Oggi, anche a livelli non alti, ogni gara è importante, e non si può immaginare di prepararle tutte in modo diverso. In ogni caso, significa trasmettere al giocatore che non ce la farà da solo, e abituarlo a credere che il suo rendimento sia legato a condizioni estranee, come l'avversario, il campo esterno, la classifica o la carica, mentre serve che sappia mettere in moto quello migliore per lui, così che le affronti tutte allo stesso modo.
Dare la formazione all'ultimo istante, creare attese cariche d'affanno e inutili rivalità affinché i titolari non si deconcentrino e le riserve non si abbattano, ma è difficile che un atleta tenuto sulla corda poi risponda o che in ogni caso in questo clima vi siano più impegno e responsabilità. L'incertezza, infatti, scoraggia o irrita proprio quelli che sono in bilico, che avrebbero più bisogno di tranquillità e sicurezza, e non tocca gli altri che, se valesse questo ragionamento, potrebbero deconcentrarsi o, addirittura, sentirsi troppo rassicurati.
Somministrare il sermone d’incitamento, oppure mostrarsi preoccupati o fingersi troppo tranquilli, ma parlare di decisione o impegno come se l’atleta non li avesse già da solo, fare scene e suscitare climi tesi e artificiali non è utile. Il giocatore sente questo eccesso di tensione e risponde con altra agitazione, oppure si sente infastidito e, in ogni caso, si rende conto di essere trattato come se non fosse responsabile e avesse bisogno di essere stimolato per fare qualcosa che dipende da lui. Inoltre, fare qualcosa che dovrebbe essere già chiaro e implicito, gli inculca il dubbio di non saperlo fare e, alla fine, la certezza che non ce la farà mai da solo. Con questi stimoli, infatti, si accentuano le difficoltà e lo si convince di non essere pronto, che il compito è troppo grande, che ha bisogno di un intervento che dipende da altri. in pratica che, per trovare sicurezza e coraggio, deve avere paura.
Fare appello all'orgoglio, alla "rabbia" o allo spirito di rivincita, e quindi a strumenti che sono sotto la sfera emotiva e non chiamano in causa la padronanza della situazione, la lucidità e l'iniziativa personale, e in questo modo appellarsi a risorse ipotetiche e non controllabili invece che a quelle reali del giocatore. Oppure insistere sull'obbligo di vincere a tutti i costi e studiarne i sistemi, ma curarsi troppo poco del livello della prestazione. In questo modo, più che dare stimoli si crea impaccio. Sia perché il giocatore che si può valutare solo per la vittoria non riesce ad avere conferme sul livello della prestazione e, di conseguenza, sui mezzi che impiega nella gara. Sia perché l'atleta compete senza bisogno di altre sollecitazioni e, se qualcuno lo assilla, perde sicurezza e si crea pensieri negativi. E sia, infine, perché al desiderio della vittoria, che dà tono e motivazioni e stimola l'iniziativa, subentra la paura della sconfitta, che fa fuggire la responsabilità, non rischiare il nuovo e ripetere solo gesti già collaudati.
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