Perché i figli fanno il contrario di ciò che vogliamo?
Dell'originale metodo autoritario di un tempo rimane ben poco, perché l'ambiente è cambiato, i figli sono meno disposti ad adattarsi agli ordini e hanno molta più facilità a opporsi.
Non c'è più il padre padrone o, se qualcuno ci prova, è una figura lontana, che stona e non corrisponde a un fenomeno di costume. Ma nel clima autoritario, o nella reazione che ne è seguita, ci siamo cresciuti, e qualcosa ci è rimasto. A qualcuno anche di più, tanto che non riesce a liberarsi di certe convinzioni che gli fanno vedere i figli come materia solo da plasmare secondo propri criteri.
L'autoritario di oggi vuole crescere il figlio a propria immagine e secondo le prospettive che ha su di lui, cerca di imporre le proprie convinzioni con metodi più morbidi e propone un ben preciso percorso adatto più a valorizzarsi che a evolvere. In realtà, dalla cultura attuale assimila solo ciò che gli serve per rendere più accettabili i propri sistemi educativi.
In questa tipologia non troviamo più il genitore che deve neutralizzare un figlio ribelle a ogni forma di autorità. Non perché manchino i conflitti, ma perché la ribellione di epoche trascorse si è, prima, adattata a un clima non più in grado di pretendere comportamenti maturi e, ora, sempre più alla tranquilla attesa che sia il genitore a stabilire percorsi e soluzioni.
E allora il genitore tradizionale torna a vincere? A volte sì, e questa figura ibrida non piace, perché è facile che formi un succube o un ribelle. L'educazione, infatti, non è una partita a scacchi, ma ha una logica e una coerenza, e anche se un metodo educativo non produce sempre gli stessi effetti, perché alla fine è la risposta dei figli a determinarne o no la validità, in un sistema autoritario certe risposte non sono evitabili.
Per esempio, un figlio che reagisce non ci deve sconvolgere perché, pur in misura e con effetti diversi, in tutti i sistemi dobbiamo pretendere il rispetto di precise regole e opporci quando "ci prova", esce dal binario, non s'impegna o aspetta che facciamo al posto suo, ma se siamo autoritari, troviamo difficoltà maggiori. I figli mettono in pratica nel modo più coerente ciò che hanno imparato: se noi imponiamo, comandiamo e abbiamo sempre ragione, cercano di essere come noi, perché questa è una regola fondamentale dell'educazione.
Esaminiamo il caso di un ragazzo in conflitto perenne con il padre: è inquieto ed è stato espulso da due scuole per problemi disciplinari; frequenta picchiatori e passa da un incidente all'altro per la sua arroganza e perché vuole "essere un capo". Il padre, un professionista meno noto di quanto vorrebbe, è distaccato, sempre rigido e giudicante; si considera un modello ideale e vorrebbe un figlio del tutto simile. Il figlio rivela una buona vivacità creativa, anche se sacrificata a un conformismo che lo vincola al cliché di "duro" che si oppone per principio e crede prima di tutto al mito della forza fisica; cerca di deludere il padre in tutti i modi, dalla scuola alle amicizie, fino a colpirlo nella sua immagine aristocratica. Sono simili, ma l'uno compensa i propri disagi tentando di emergere in campi apprezzati, mentre l'altro sceglie quelli opposti, poiché non è abbastanza sicuro da misurarsi sulle capacità e sull'impegno. Abbiamo così due esigenze uguali e contrapposte, e dunque inconciliabili, per cui il confronto non si può risolvere senza un vincitore e un vinto.
Che cosa fare in questi casi? Accorgerci finalmente dei figli e del loro bisogno di sentirsi alla pari, ma non basta: quando i figli hanno un bisogno spasmodico di "sentirsi importanti", ma non hanno strumenti per farlo, tocca a noi cambiare e offrire loro la possibilità di valorizzarsi per tante qualità che non sanno di possedere. Se, però, il conflitto ha già raggiunto toni troppo aspri, neppure così è facile, perché i figli, pur di combattere la loro guerra, si oppongono a tutti i nostri apporti educativi, compresi quelli che li potrebbero valorizzare.
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