Molta parte dell’insegnamento è fornire informazioni da mettere insieme fino ad arrivare alla soluzione, che è come “il tutto già fatto” che si trova già risolto su internet. Costruirsi il percorso verso una conoscenza significa anche acquisirlo e non perderlo più, abituarsi a imparare a procedere da soli e guadagnare sicurezza, perché l’apprendimento è più facile e completo se si ha prova di saper imparare e creare il nuovo. In sintesi, conoscere gli obiettivi, permette di indagare la strada da percorrere e gli strumenti per raggiungerli, mentre non conoscerli insegna solo a ripetere e ad aspettare di essere guidati.

Al talento, nello sport e ovunque, non si chiede di essere un tipo particolare, ma una persona normale, in particolare che dia garanzia di non avere sempre bisogno di essere chiamato a essere costruttivo. Non si parla di talenti che abbiano tutte queste virtù e qualità, ma di un istruttore che sappia portare in questa direzione quelli già orientati o, almeno, di non provarci con quelli che mostrano di essere incorreggibili.

Il discorso interessa poco lo sport per tutti, dove si chiama talento chi è soltanto più abile degli altri, ma lo sport di vertice, dove se ne preparano tanti per il collettivo.

Il talento ha gli stessi tempi di apprendimento di tutti, ma è favorito dal poter mettere in atto più facilmente le intenzioni e di aggiungere qualcosa di proprio. Resiste alle indicazioni di chi insegna, perché possono confliggere con i suoi mezzi e ha strumenti personali migliori. È più pronto a imparare da solo e, quindi, ha bisogno di pochi elementi, e il primo è conoscere gli obiettivi e, poi, poter scegliere i modi e gli strumenti tecnici per raggiungerli. L’insegnamento comune gli impedisce di usare il proprio talento e, se costretto, arriva a fare meglio ciò che è alla portata tutti, ma non ciò che sarebbe possibile soltanto a lui.

Per “fare insieme” non s’intende soltanto collaborare nell’esecuzione di un compito o un’azione, ma partecipare con contributi personali anche all’ideazione e alla messa in atto. Insegnante e allievo mantengono il proprio ruolo: il primo fornisce le indicazioni necessarie per stare all’interno di direzioni produttive, e pretende che non siano disattese, mente il secondo impara a muoversi in spazi definiti e, al loro interno, esercita tutta la creatività e l’iniziativa senza essere vincolato da atti di pura imitazione.

Si è sempre parlato dei benefici dello sport ed è il caso di riaffermarli, ma anche di non esserne sempre sicuri. Se intendiamo lo sport come strumento per allenare il fisico e insegnare a divertirsi giocando, basta come si è sempre fatto. Se, invece, se ne vogliono utilizzare le grandi potenzialità educative, cioè far crescere la persona e lo sportivo per quanto di potenziale c’è in ognuno e non lasciar sviluppare disagi che influiranno anche sull’età adulta, qualcosa dovrà essere cambiato. Si parla di attenzioni apparentemente ovvie, ma spesso disattese, che riguardano soprattutto la famiglia e in parte anche la scuola. Si tratta, quindi, di un fatto culturale di cui lo sport è soltanto una parte. Si deve praticare, perché piace ed è difficile che causi grossi disagi, ma anche perché potrebbe correggere errori dell’educazione.

A volte, i giovani assumono iniziative impreviste e non concordate, e l’intervento più logico sarebbe fermarli e riportarli a quanto si era insegnato. Non hanno ancora le conoscenze necessarie per districarsi da soli e trasformare un’iniziativa mai provata in un’azione concreta, ma è il caso di lasciarli liberi di provare.

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