Pillole

Parliamo di un allenatore che si sforza con tutto l’impegno e la dedizione per portare gli allievi ai livelli possibili, ma rimasto indietro rispetto ai tempi e a un giovane che ha bisogno di altre sollecitazioni.
Questa non è la descrizione di un allenatore, ma la somma di convinzioni, metodi e interventi di una cultura dello sport non ancora del tutto superata e destinata a modificarsi, pena la formazione di sportivi incompleti e sempre meno adeguati ai tempi.

Il vecchio allenatore stimolava l’ansia negativa, che brucia energie e annebbia la mente, perché è tensione e paura di non farcela, affanno di non essere all'altezza e difficoltà a tenere dietro all’aumento delle esigenze.

Riteneva l’allievo incapace di trovare da solo le motivazioni e la condizione per rendere, e quindi era convinto di doverlo “caricare”, ricordargli di impegnarsi o regolargli anche la vita privata e non riconoscergli i meriti perché “non si montasse la testa”.

Identificava l’agonismo con un atleta rabbioso, le partite della vita, le lunghe concentrazioni, i rituali diversi per la partita importante, la carica, le strigliate, il dramma e la colpa della sconfitta. Era convinto che stimolare la paura aumentasse la sicurezza e il coraggio, mentre l’agonismo è lucidità, ottimismo, sicurezza nei propri mezzi e consapevolezza di potercela fare.

Considerava la difficoltà a metterci tutto l’impegno e l’iniziativa sempre frutto di pigrizia, disinteresse e sregolatezza, e non, più ragionevolmente, di tensione, insicurezza e paura di non essere all’altezza della situazione e di poterla controllare.

Durante la formazione, lasciava prendere troppo piede al bisogno di vincere senza sapere che così si stimola la paura di perdere, trascurava il talento a favore dei trucchi e della furbizia ed escludeva l’iniziativa personale e la ricerca del nuovo perché troppo rischiosi.

Creava tensione con esortazioni continue all’impegno e alla responsabilità, e noia con un insegnamento monotono e uguale per tutti e con allenamenti noiosi, cause del calo di motivazioni e rendimento in gara e scarso impegno in allenamento.

Aveva una concezione negativa della competizione. Trasformava gli avversari in nemici da battere anche con mezzi scorretti e, magari, violenti, che per quelli privi di talento poteva andare bene, ma penalizzava gli altri, che dovevano adottare un atteggiamento agonistico per loro meno efficace e con il quale erano sfavoriti.

Temeva le preparazioni troppo serene alla partita, che per lui significavano mancanza di concentrazione e disinteresse. Era il pensiero comune, mentre oggi è chiaro che, prima di una partita, non c’è indifferenza, ma un’ansia che possiamo definire positiva, che dà direzione e intensità all'attività fisica e intellettiva, rende lucidi, ed è sicurezza e padronanza delle proprie risorse, energia, motivazione, voglia di misurarsi, attesa senza paura e fiducia di potercela fare e di tollerare anche l'insuccesso.

Caricava gli allievi di pressioni perché non si lasciassero prendere dal distacco, dal disinteresse o dall'appagamento. E la tensione si ripercuoteva sulla gara, perché non aveva strumenti per stemperare la paura e stimolare l’interesse, che per lui non era spontaneo e naturale, ma doveva essere stimolato e trasmesso.

Creava rivalità all'interno della squadra, perché la riteneva uno strumento essenziale per stimolare la competizione. Come si può, però, credere che la rivalità, in un ambiente dilettantistico, dove le uniche motivazioni dovrebbero essere giocare e divertirsi, o ancora di più nel professionismo, dove gli interessi sono ben maggiori, non possa anche sfociare in un conflitto, oppure nella formazione di clan, in tranelli o in boicottaggi reciproci? E come si potrebbe parlare di collettivo in queste condizioni?

Penalizzava la cooperazione a vantaggio di piccoli trucchi o di tutto ciò che può servire subito, ma va contro lo sviluppo e il gioco. In questo modo rubacchiava un risultato, ma non dava continuità, agonismo vero e una sicurezza stabile, e nuoceva soprattutto al talento, costretto a eseguire a spese della creatività e dell’iniziativa.

Temeva che il rispetto per l'avversario togliesse decisione e aggressività e snaturasse l’agonismo. Così, stimolava condizionamenti psicologici confusi di aggressività e rabbia contrari al rendimento, e il gioco spesso si disperdeva in ripicche, ritorsioni, agguati, aggressioni e paura di essere aggrediti.

“Insegnava” il talento. È il caso, reale, di un allenatore che corre avanti e indietro suggerendo ogni iniziativa. È ammirevole per le intenzioni, ma non considera che il talento è del tutto personale, ed è l’impiego della propria creatività e iniziativa, e non l’esecuzione di gesti dettati da altri.

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