Le domande degli allenatori

Fare sempre le stesse cose, indossare gli stessi vestiti o osservare certi rituali prima di una gara, cioè la superstizione, serve per concentrarsi? Per stimolare qualcuno ricorre anche alla superstizione.

Prima di una gara fa fare le stesse cose, sceglie il solito albergo, fa gli allenamenti e i rituali della gara vinta, impone gli stessi cibi, usa gli stessi abiti, magari un cappotto a giugno, o ricorre ai maghi per arrivare dove crede di non potercela fare con le forze della squadra. 

L’abitudine a certi rituali o pregiudizi può essere un adeguamento a usanze dell'ambiente, tuttavia è pur sempre un affidarsi a qualcosa di esterno e quasi soprannaturale. L’atleta che ci crede si sente protetto e incoraggiato, e gareggia davvero meglio, ma se la sente come un bisogno ossessivo e indispensabile ne è turbato e ne risente anche nel rendimento. Allora il rituale diventa un amuleto o un'ossessione di cui non può fare a meno, e intanto perde efficacia, perché qualche volta non funziona e cessa di essere una garanzia.

La superstizione si fortifica o si annulla da sola. Immaginiamo l'atleta che non ha potuto seguire il rituale che gli dà la sicurezza di poter ripetere la prestazione positiva. Ha paura, capisce che gli manca qualcosa e non si sente pronto per la gara. E allora ecco che non rende davvero, perché ha perso sicurezza e si sente svuotato, come impone sempre la paura. È chiaro che non è la mancanza dell'amuleto a bloccarlo, ma la paura di non averlo. È la profezia che si avvera: l'atleta non riesce a ritrovare la sicurezza della gara felice, ha paura di non essere pronto, e alla fine non lo è davvero, proprio perché ci crede.

Chi non può rinunciare ai suoi rituali, pena un'insicurezza che lo blocca, è il soggetto privo di autonomia, abituato ad affidarsi sempre a qualcuno che pensa, decide e fa per lui e a vivere ogni gara come un dramma, che in campo si sente solo e crede di non potercela mai fare.
A volte è condizionato da una mentalità che esiste anche fuori dello sport, ma questi comportamenti irrazionali e ripetuti con una cura metodica ci dicono che se lo sport non s’interesserà di formare un soggetto che si affida a se stesso, conosce i propri meccanismi e le proprie reazioni e li sa coordinare in vista di ciò che vuole ottenere, avremo sempre lo sportivo che si affida per avere quella sicurezza che non sa trovare in altro modo.

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