Salute

Su un giornale, un personaggio pubblico, e votato, si fa una canna in un posto in cui si dovrebbe essere chiamati a fare altro.

Ha l’età per essere nonno, e certo dovrebbe lasciare il posto a un ragazzo ancora in cerca di un’identità e di un ruolo ben chiaro nella vita.

Si augura una mobilitazione crescente per la legalizzazione della cannabis, di sicuro perché “rende liberi, è segno di autonomia e una pratica ostacolata da bacchettoni”.

A proposito, libertà non è andare contro le regole, che significa andare contro la cultura, o civiltà che dir si voglia, e non avere bisogno di usare gli altri per superare i propri disagi e complessi, ma riconoscere la stessa libertà a tutti. 

Un altro, una specie di Giovanna D’arco, sfida e schernisce i cattivi che non vogliono lasciar coltivare cannabis a tutti. La coltiva e la distribuisce pubblicamente a chi la chiede ma, sembra assicurare, solo a fini terapeutici. In pratica, tutti, specie nel proprio gruppo di seguaci più o meno passivi, hanno un malato in casa, che ha bisogno di curarsi con la cannabis, salvo poi dire che si deve poter coltivare anche per uso personale. La dobbiamo avere libera, e quindi la possiamo assumere tutti, ma così i malati sono semplici strumenti per scopi che non sono loro. Dice che la Direzione Nazionale Antimafia, quando ha denunciato il fallimento dell’azione repressiva nei confronti della droga, voleva dire che ognuno può coltivare la cannabis per farne un uso a piacere o che l’eventuale fornitura deve essere regolata con limitazioni di Legge? O forse ha detto nulla di tutto questo?

A questo punto mi chiedo: “Ma allora, ci vogliono trattare tutti da stupidotti o ne hanno già fumata troppa?”. A chi la raccontano che uno, specie un giovane, la coltiva in casa per darla ai malati? E perché io, medico, che quando un malato rifiuta una cura essenziale per mantenere la salute devo per forza accettare, se rifiuto di prescriverla quando ne conosco la necessità commetto un reato grave, mentre altri possono giocare impunemente con la salute dei più fragili? Se il ragionamento sembra contorto, basta capovolgerlo. Se un adulto vuole andare in modo consapevole contro la propria salute, lo devo informare, ma poi non posso fare altro. Se, però, lo fanno un ragazzo che non riesce ancora a comprenderne le conseguenze o un adulto che non le comprenderà mai, devo fare qualcosa, e non certo autorizzarli o trasformarli in branco per la mia “battaglia di libertà”.

E adesso, arriviamo al problema vero, alla somma di due fattori patogeni. Si sa che i ragazzi bevono di più e a età sempre più basse. Lo fanno per sentirsi grandi, per essere accettati, per vincere la timidezza o per altri motivi in parte comprensibili, anche se non giustificabili, ma soprattutto perché l’alcol è facilmente reperibile, non sono consapevoli dei rischi, e credono di non cadere nella dipendenza e di poter smettere quando vogliono. Intanto, però, i danni iniziano da subito, anche perché fin dopo i sedici anni mancano ancora gli enzimi per metabolizzare l’alcol. E allora, ci aggiungiamo la cannabis, che come l’alcol fiacca la volontà, e a un ragazzo provoca le stesse lesioni e limitazioni a livello cerebrale, mentale e intellettivo?

Forse queste persone non hanno figli o nipoti. Per loro, la liberalizzazione della cannabis dovrebbe servire come lotta contro il crimine, ma noi, genitori e nonni normali, potremmo immaginare i nostri figli e nipoti come piccoli soldatini, arruolati e vulnerabili, mandati in prima fila all’assalto delle mafie? E se ci riuscissero, liberalizzeremmo anche le pastigliette? Lasciamo questi compiti allo Stato, e limitiamoci a difenderli da cattivi maestri che confondono la libertà con i propri interessi.

La prossima volta parleremo dei pifferai di Hameln.

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